da “Utopie Letali”, di Carlo Formenti, Jaca Book, Milano, 2013
(estratto: conclusioni)
Sul piano teorico il libro espone quattro tesi. La prima afferma che la crisi in corso è sintomo di un irreversibile mutamento del modello di accumulazione capitalistica. Tale processo comporta, oltre ai processi di finanziarizzazione e globalizzazione…
smantellamento dello stato sociale, accompagnato da estese privatizzazioni e dalla trasformazione in servizi commerciali di una quota crescente di attività che prima rientravano nelle sfere delle relazioni private, famigliari e comunitarie;
Seconda tesi: rovescia il paradigma – caro a postoperaisti, teorici dell’economia della conoscenza, cantori della Rete come ambiente di una “economia del dono”, profeti del lavoro autonomo, ecc. – secondo cui i knowledge workers rappresenterebbero una sorta di avanguardia economica, sociale, politica e culturale destinata a guidare la transizione quasi indolore verso una civiltà postcapitalista. A questa visione viene contrapposta l’idea secondo cui questo strato, dopo le due crisi che hanno squassato il primo decennio del 2000, si è spaccato in due componenti, la prima delle quali è stata integrata/cooptata nella stanza dei bottoni, mentre la seconda è precipitata nel proletariato dove, tuttavia, non rappresenta l’avanguardia bensì il fianco molle della classe, quello più esposto all’offensiva nemica. Viceversa, analizzando la composizione di classe a livello planetario, emergono nuove forze – la classe operaia dei Brics, le masse indigene e contadine dell’America Latina, i lavoratori precari del terziario arretrato negli Stati Uniti e in Europa, i migranti che si spostano a milioni in tutto il mondo, ecc. – che incarnano una controtendenza verso la concentrazione di enormi energie antagoniste al sistema capitalistico.
Terza tesi: Spontaneismo (si presume che i movimenti si auto organizzino e debbano respingere le interferenze esterne), culturalismo (si ripudia la collocazione produttiva come criterio identitario) , “orizzontalismo”, (caro a neoanarchici, postoperaisti e movimenti “incantati” da Internet) hanno provocato l’incapacità dei movimenti di coordinarsi, sedimentare memoria delle proprie esperienze, adottare obiettivi, programmi e forme organizzative comuni. Inoltre questo miscuglio di ideologie antigerarchiche, antistataliste, antiautoritarie, orientate alla rivendicazione di diritti individuali/personali (esito della lunga deriva postsessantottina) sono contigue ai valori della cultura liberale, se non addirittura liberista (è il caso delle idee anarcocapitaliste che prevalgono in molte culture cyber) … È possibile recuperare l’idea del partito come espressione di interessi di una parte sociale contro la mistificazione di un presunto “interesse generale”, in un’epoca in cui la parte è esplosa in pezzi? Sì, se si riparte dai pezzi senza chiedere loro di rinunciare alla propria specificità, se si immagina, cioè, un modello federativo che riunisca identità differenti – andando oltre l’obsoleta distinzione fra partiti, sindacati, movimenti, associazioni, ecc. – ma convergenti su un programma di opposizione antagonista.
Quarta tesi: Contro le nuove teorie del crollo che predicano che il comunismo è immanente al nuovo modo di produrre, per cui basterebbe che la gente se ne accorgesse per mandare in pensione il capitalismo; contro il mito (femminista e non solo) secondo cui la rivoluzione si fa “partendo da sé”, modificando la psicologia e l’antropologia personali, piuttosto che attaccando direttamente i rapporti economici e politici di dominio; contro l’idea che si possa arrivare a cambiare il mondo attraverso una lunga marcia dei diritti; contro le utopie “benecomuniste” che pensano si possa cancellare con un tratto di penna “costituente” millenni di diritto pubblico e privato, si sostiene che partito e stato vanno riprogettati come strumenti della transizione al postcapitalismo, e che, a questo fine, rivisitare le teorie gramsciane sul “farsi stato” e sull’egemonia delle classi subalterne è assai più utile delle chiacchiere sul “potere costituente” delle moltitudini.
NON CREDO: Non credo, per esempio, che la fine del capitalismo sia un destino immanente alla logica di questo modo di produzione: penso che per farlo finire occorra un progetto rivoluzionario cosciente e organizzato; non credo che la civiltà (comunista o quel che sarà) che succederà a quella capitalista sarà scevra da contraddizioni: penso che i conflitti di genere, interculturali e altri resteranno anche se assumeranno forme diverse, in barba a ingenui ottimismi antropologici; non credo che il partito potrà mantenere le forme novecentesche: credo che dovrà assumere forme adeguate a organizzare/rappresentare un corpo di classe che si è fatto articolato e complesso; credo ancora che lo Stato borghese vada distrutto, ma non credo che lo Stato si estinguerà: penso che subirà radicali mutazioni a mano a mano che le classi subalterne riusciranno a farsi stato. Ci sono altre differenze, ma lascio al lettore, se ne avrà tempo e voglia, il compito di scoprirle.