Abitare stanca. La casa: un racconto politico, di Sarah Gainsforth
Estratto dall’intervista all’autrice a cura di Andrea Staid, luglio 2022 iltascabile.com
La casa dovrebbe essere un punto di partenza, la terra sotto i piedi, la base per fare altro, non un punto di arrivo, un obiettivo, uno status symbol o un fine. Questo non sminuisce la sua importanza: proprio perché la casa è un requisito fondamentale per stare felicemente e pienamente nel mondo è assurdo e profondamente ingiusto che qualcuno ce l’abbia e qualcun altro no.
quelli che giustificano lo spossessamento e l’appropriazione di terre raccontate come vuote da “migliorare” e “valorizzare” che solo la proprietà assicurerebbe, che sono gli stessi argomenti usati oggi per privatizzare lo spazio pubblico in nome del decoro. Sono argomenti che rimuovo le cause economiche e sociali dei problemi e li riducono a problemi architettonici, estetici, che rimuovono i problemi eliminando lo spazio pubblico e demolendo le case. Racconto le trasformazioni urbane contemporanee in quartieri in via di gentrificazione, a Milano, o semplicemente depredati e impoveriti, a Roma. Le politiche abitative di fatto non ci sono più, il poco che c’è come i sussidi per il mercato privato non funziona, la proprietà viene ancora proposta come la soluzione, il cerchio si è chiuso.
In Italia le cose sono andate un po’ diversamente rispetto all’Inghilterra di Margaret Thatcher, perché non c’è stato un piano esplicito di diffusione dell’ideologia neoliberale. In Italia questa agenda è passata per una serie di riforme e per una gestione sempre più tecnocratica delle scelte economiche, il che spiega anche la sparizione dell’urbanistica dal dibattito pubblico: se l’urbanistica era stata uno strumento di emancipazione per i ceti popolari, per gli esclusi, per le donne che rivendicano servizi sociali, asili, parchi, successivamente viene depoliticizzata, resa materia tecnica per pochi esperti maschi.
soprattutto a Roma e nel meridione, nella diffusione della proprietà gioca un grande ruolo l’abusivismo edilizio, prima per necessità e poi per speculazione. In ogni caso, la casa è stata un veicolo per la penetrazione del mercato in un ambito che è sociale, che andrebbe tutelato dal mercato. La promozione della proprietà è servita ad alimentare il mercato finanziario, innescando un ciclo di prestiti e debiti per case sempre più costose, mentre il mercato del lavoro e i settori industriali venivano smantellati. Oggi ci troviamo in un punto di rottura tra queste due dinamiche, le politiche sul lavoro sono completamente scollegate da quelle per la casa (il lavoro non c’è, la casa costa troppo), mentre la rendita ha sostituito il lavoro.
Quella sul decoro è la nuova versione di una narrazione vecchissima, quella del miglioramento, che legittima l’appropriazione di spazi e risorse. Il miglioramento significa la messa a profitto, l’ingresso del mercato in spazi liberi dal mercato, presentati come vuoti, dimenticati, degradati. Questa narrativa legittima un intervento di “miglioramento”, ovvero di mercificazione.
L’abbiamo visto con le recinzioni delle terre comuni, con la stigmatizzazione dell’edilizia residenziale pubblica, con le piazze nelle città turistificate, tutti spazi liberi e colonizzati dal mercato. Si basa sulla rimozione delle condizioni economiche che determinano l’uso dello spazio, e sull’identificazione dei problemi in un fattore estetico, architettonico (nel caso dell’edilizia pubblica), e con l’identificazione della soluzione nella proprietà privata.
La street-art serve a costruire questo canone estetico, un tappeto sotto cui far sparire le disuguaglianze. Serve ad addomesticare il conflitto, a imbrigliarlo in un gioco di apparenze, a rendere quartiere attrattivi per una popolazione più ricca, anche e soprattutto fagocitando espressioni di una contro-cultura che resiste alla distruzione del capitale.
David Harvey ha detto “Il problema per il capitale è trovare le strade per cooptare, sussumere, mercificare e monetizzare tali differenze in modo tale da potersene appropriare come rendite di monopolio“.
Non è un caso che sui muri di Roma compaiano opere si street-art finanziate da operatori immobiliari. Quello che distingue la vera street-art illegale da quella degli iperatori immobiliari è tutto quello che non è visibile: non l’immagine, ma il processo che sta dietro l’immagine.
I che rivela che la gentrificazione è a tutti gli effetti una politica pubblica per le città, che serve a rimuovere problemi e persone, a non affrontare le condizioni di vita di chi vi abita (la casa, il lavoro) ma a rendere belli i muri.
Il turismo fa male alle città come strumento di rianimazione della rendita, come strumento di appropriazione, mercificazione e di distruzione.
Come ogni monocultura che sfrutta intensivamente una risorsa, anche l’economia turistica distrugge ciò di cui si nutre, si autodistrugge. Le città turistiche si somigliano tutte, hanno perso la propria unicità, sono desertificate.
Giacomo Salerno ha scritto un bellissimo libro su questo, sul turismo come “industria della nostalgia” che ci vende l’esperienza della città che ha appena distrutto. Il turismo è una macchina estrattiva, preda le risorse comuni, scarica i costi sulla collettività e privatizza i profitti.
Quello che ho provato a rimettere in luce è che la rendita stessa (connaturata alle trasformazioni urbane, perché le trasformazioni urbane sono inserite dentro un modello di sviluppo che è quello capitalistico, dell’urbanizzazione del capitale) è una costruzione collettiva, perché la formazione della rendita, ovvero del valore di un terreno, deriva non solo dalla sua edificabilità ma anche dalla sua posizione rispetto alla città e a una serie di vantaggi che questa offre in termini di servizi pubblici: la rendita è il risultato di scelte delle collettività. Dunque non è una prerogativa della proprietà privata, come viene presentata dalle associazioni di proprietari che si oppongono alla regolamentazione degli affitti brevi e lamentano l’ingerenza in quello che considerano un loro diritto – fare della proprietà quello che vogliono (salvo poi invocare aiuti pubblici quando il turismo crolla). Se le loro case valgono tanto è perché sono in zone ben servite e collegate o in zone turisticamente attrattive per via di un patrimonio storico, artistico e culturale… collettivo. Insomma l’esistenza di forme di pre e redistribuzione di questi vantaggi dovrebbe essere un fatto ovvio, non dovremmo neanche starne a parlare. Invece.
L’idea di un welfare universale “elargito dall’alto” come strumento di controllo è esattamente la narrativa che è stata impiegata per smantellarlo, secondo un concetto di “libertà” neoliberale, di libertà di iniziativa economica, in cui il welfare è raccontato come sinonimo di controllo, ma solo perché è un freno al libero mercato e alla competizione tra lavoratori salariati.
Da un punto di vista politico, quando il welfare universale sparisce sostituito da logiche di sussidiarietà e privatizzazione, quello che resta sono richieste particolaristiche di inclusione in un sistema che produce esclusione, qualcosa di paradossale.
Le lotte, anche quelle più recenti, hanno sempre chiesto più welfare universale (non riconoscimenti particolari), piùservizi, più ospedali, più reddito di base, non meno servizi e più libertà.