Will e Viola

Shakespeare in Hollywood, di Arturo Cattaneo e Gianluca Fumagalli

All’inizio…

“Il 21 marzo 1999, in un grande teatro di Los Angeles, Hollywood si autocelebra nell’ultima notte degli Oscar del Novecento, il secolo del cinema per antonomasia. Mezzo mondo assiste in diretta televisiva all’imprevedibile trionfo di Shakespeare in Love, vincitore di ben sette statuette. Un film con Shakespeare protagonista? Non si era mai visto. Siamo all’apoteosi di un fenomeno storico: quel lungo e avventuroso processo di appropriazione culturale che intendiamo raccontare in questo libro e che abbiamo sintetizzato nell’espressione «Shakespeare in Hollywood». La produzione di film shakespeariani proseguirà negli anni Duemila, dando origine a un consolidato genere di nicchia, ma senza raggiungere il grande successo di pubblico, la risonanza mediatica e la valenza simbolica di Shakespeare in Love.” (p.6)

“Shakespeare, direttamente e indirettamente, risulta essere la figura piú titolata nell’intera storia degli Academy Awards. Si possono contare ottantasei candidature, in quasi tutte le categorie, che hanno portato a ben trenta Oscar per ventisei film considerati shakespeariani a vario titolo. Questo primato vale comunque, anche volendo considerare soltanto i diciassette adattamenti espliciti dei suoi plays, ovvero quelli dichiarati fin dal titolo, che hanno guadagnato comunque quarantotto candidature e undici Oscar.” (p.17)

 

In un libro ricchissimo di informazioni, aneddoti e considerazioni storiche sul rapporto fra cinema e teatro, ho scelto di annotare il ruolo avuto da Orson Welles nell’introdurre Shakespeare nell’arte cinematografica. Tutto inizia negli anni trenta, in un periodo di grande crisi del teatro per la Grande depressione negli Stati Uniti. Welles e il produttore Houseman decidono di mettere in scena un Macbeth a Harlem. Un Macbeth ambientato a Haiti e solo con attori neri.

“al posto delle nebbie e della brughiera delle Highlands, Welles lo ambienta alla corte di Henry Christophe, il leader della rivolta degli schiavi nel 1791 poi diventato re Enrico I di Haiti. La produzione prende subito il nome di Voodoo Macbeth, e appropriatamente, visto che i culti animistici di Haiti prendono il posto della stregoneria elisabettiana. Una libertà che nessuno si era mai preso con Shakespeare, in un’America dove agli attori di colore non era ancora consentito di recitare nel ruolo di Otello.” (p.80)

L’iniziativa crea  diffidenza tra i neri perché parte da due bianchi, ma riesce comunque ad avere un successo di pubblico e di critica.

“La sera della prima, annunciata da una banda di ottoni e da un battage degno dei migliori spettacoli di Broadway, si presentano cinquemila residenti di Harlem, anche se tutti i posti erano già stati venduti una settimana prima, e non pochi rivenduti dai bagarini, a volte al doppio del prezzo originario. I maggiori critici teatrali di New York, e diversi da tutto il paese, hanno annunciato la loro presenza (uno di questi aveva, con tatto, richiesto che lui e la moglie fossero sistemati, se possibile, «non vicini ai negri»). Il traffico è bloccato per cinque isolati intorno al teatro. Imponenti cordoni di polizia tengono a bada la folla. Il teatro è pieno. In platea, personalità del mondo bianco e di quello nero siedono fianco a fianco, e alla fine salgono sul palco a congratularsi con gli attori. Dalla sera alla mattina Welles è acclamato come un genio dello spettacolo, e dopo dieci settimane di rappresentazioni senza mai un solo posto vuoto in teatro, da Harlem il suo Macbeth passa a Broadway per tutta l’estate, per poi proseguire in una lunga e fortunata tournée attraverso gli Stati Uniti.” (81)

Ma il successo del cinema holywoodiano non lascia spazio al teatro ormai in crisi per ragioni che sono culturali ed economiche. Ecco cosa dice il presidente Roosvelt: «Oggi che lo spirito della nazione è depresso come non mai, è splendido che per soli 15 centesimi qualunque americano possa andare al cinema e dimenticare i suoi problemi». (p.82)

Interessante. Alla fine degli anni trenta vi sono cambiamenti tecnologici (pellicola a colori e più sensibili, tecniche di ripresa… e di illuminazione) che influenzano anche gli stili dei registi. La pellicola bianco e nero domina ancora tra i maggiori registi perché permette di usare la tecnica del deep focus.

“Questa tecnica fotografica consente di ottenere un’estrema profondità di campo e di vedere tutto con nitidezza, messo perfettamente a fuoco, dal primo piano fino agli sfondi. Oltre a usare nuove pellicole, in bianco e nero e molto piú sensibili, è necessario chiudere il diaframma della cinepresa il piú possibile, e per farlo bisogna aumentare di ben sedici volte la quantità di luce impiegata per illuminare una scena.” (136)

Welles utilizza tale tecnica in Cityzen Kane (1941). Ma verrà poi adottata da Laurence Olivier con risultati sorprendenti in Hamlet (1948). Scrive il direttore della fotografia, Desmond Dickinson: “Il deep focus è in grado di darci una maggiore «impressione di realtà». Normalmente, quando sono presenti personaggi in primo piano e altri sullo sfondo, si suddivide la scena in diverse inquadrature, filmate separatamente e ricombinate poi insieme in sede di montaggio. Invece Laurence Olivier ha adattato il play in modo da avere sequenze estremamente lunghe. Cosí gli attori possono recitare lunghi discorsi e muoversi liberamente nella scenografia. Spesso si avvicinano alla cinepresa per un primo piano e poi se ne allontanano nuovamente. Ogni soliloquio è filmato in movimento: quando non si muovono gli attori, si muove la cinepresa.” (p.136)

Nel 1948 il Macbeth di Orson Welles viene ritirato dalla Mostra del cinema di Venezia per ordine dell’ambasciatore americano. 

“Cos’è successo in quei sette anni? Semplicemente, Orson Welles e Hollywood si sono dimostrati incompatibili, e non solo per i noti problemi del regista con l’establishment, cresciuti nel corso degli anni Quaranta. I giornali controllati dal magnate Randolph Hearst – il modello di Kane nell’omonimo film che denunciava il potere e la corruzione della stampa – avevano cominciato ad attaccare Welles subito dopo l’uscita del film, sostenendo che le sue trasmissioni radiofoniche contenevano propaganda comunista. Il risultato fu che J. Edgar Hoover, il direttore dell’FBI, aprí un fascicolo su Welles che sarebbe stato chiuso solo agli inizi degli anni Sessanta. Anche il matrimonio cinematografico del secolo tra Welles e la RKO era entrato molto presto in crisi, già nel 1942, quando il suo principale sponsor, Nelson Rockefeller, era uscito dal consiglio direttivo e il presidente George Schaefer si era dimesso.” (p.145)

“Il problema piú grande era però l’incompatibilità assoluta tra un autore «rinascimentale» come Orson Welles, uomo di spettacolo a trecentosessanta gradi, e la «fabbrica dei sogni», con la sua rigida struttura gerarchica in cui registi e attori sono solo lavoratori a contratto con gli Studios.” (p.145)

“Il cinema era in effetti solo una delle possibilità che Welles contemplava per i suoi progetti, Shakespeare incluso: Hollywood non era un punto d’arrivo, ma una tappa del percorso. L’11 luglio 1938 Welles e il suo Mercury Theatre firmano un contratto con la CBS per una serie di drammi radiofonici settimanali. Si tratta di adattamenti di opere letterarie popolari comeDracula o L’isola del tesoro, o di biografie romanzate come quella del presidente Lincoln; ovviamente non manca Shakespeare, con Giulio Cesare. Le trasmissioni hanno molto successo, ma quella del 30 ottobre entra nella storia. Si intitola The War of the Worlds, dal classico di fantascienza La guerra dei mondi, del quasi omonimo H. G. Wells, che nel 1897 aveva raccontato lo sbarco dei marziani nell’Inghilterra del sud. Orson Welles lo adatta per farlo sembrare un giornale radio in diretta e quasi due milioni di ascoltatori si spaventano al punto che a migliaia fuggono da casa o chiamano terrorizzati la polizia. È il primo e insuperato caso di suggestione collettiva su vasta scala attraverso i mass media, e il giovane «mago» Orson Welles finisce sulle prime pagine di tutti i giornali d’America. Nel frattempo, grazie a un accordo con la Columbia Records, Welles registra su disco una collana shakespeariana: nel 1939 escono Giulio Cesare, La dodicesima notte e Il mercante di Venezia. Il 20 luglio dello stesso anno arriva a Hollywood, dove un mese dopo firma il celebre contratto di sessantatre pagine che gli concede un’autonomia mai riconosciuta a un regista in precedenza…. Per tutti gli anni Quaranta, Welles alterna progetti cinematografici, molti dei quali mai realizzati, all’attività di propaganda contro il fascismo durante la seconda guerra mondiale e molta radio. Che Shakespeare continuasse a occupare un posto privilegiato nella sua mente, non è dato dubitare.” (p.146)

“Nel maggio del 1947 Welles mette in scena Macbeth per lo Utah Centennial Festival, a Salt Lake City. Per sua stessa ammissione, lo spettacolo teatrale funziona anche da prova generale del film che sarebbe cominciato subito dopo: gli attori, i costumi, la scenografia sono praticamente gli stessi. Anche il sonoro viene preregistrato, perché i ventitre giorni di riprese a disposizione non consentono perdite di tempo. Ricorda Welles:

Abbiamo recitato usando un vero e proprio playback, sincronizzando il movimento delle labbra. Cosí i tecnici potevano urlare le istruzioni per i movimenti della gru, oppure martellare e gridare fuoricampo mentre noi continuavamo a filmare. Un modo pazzesco di lavorare, ma con quel piano di lavorazione non c’era altro modo di farcela.

Il 28 maggio la troupe scelta da Welles debutta nel teatro di Salt Lake City e il 23 giugno cominciano a Los Angeles le riprese del film, terminate il 17 luglio.” (p.147)

“Il film distribuito nelle sale non sarà però quello girato da Orson Welles, non del tutto. Il forte accento scozzese imposto agli attori dal regista per rispettare l’ambientazione del testo originale non viene ritenuto proponibile commercialmente, e cosí la Republic fa ridoppiare l’intero film in inglese americano standard. La produzione pretende inoltre tagli consistenti, per complessivi venti minuti. Allora Welles scrive una presentazione, un cartello letto dalla voce fuoricampo, per far capire al pubblico l’essenziale della storia, anche se in realtà, piú che la trama, è la sua personale interpretazione.” (p.147)

“con Macbeth che il suo rapporto con il cinema americano arriva allo strappo conclusivo. Welles, nel frattempo, ha lasciato non solo Hollywood ma l’America.” (p.148)

Nel 1947 Welles finisce col fare il protagonista di Black Magic, in cui interpreta la parte di Cagliostro. Per motivi economici la produzione finisce a Roma. Qui conosce Scalera che, nel tentativo di “riciclarsi” dopo la compromissione con il regime fascista, accetta di produrre Otello con Welles.

“Tra l’inizio e la fine delle riprese passano circa due anni perché mancano sempre i soldi. In un primo momento va tutto bene: forte del contratto con Scalera Film, Welles raduna gli attori e li porta sul set a Mogador, in Marocco. Due giorni dopo, ecco un telegramma: «I costumi non arrivano perché non sono ancora finiti». Il giorno dopo, un secondo telegramma: «I costumi non arrivano perché non li hanno nemmeno cominciati». Allora Welles improvvisa e gira un paio di rulli con gli attori seminudi in un mercato del pesce riadattato: l’uccisione di Roderigo nel bagno turco sarà una delle sequenze piú memorabili dell’intero cinema shakespeariano. Telegramma finale: «Scalera Film è fallita».” (p.149)

Ci vorrà altro tempo prima di concludere le riprese e fare il montaggio. “Come ricorda Welles: Il film è stato girato a pezzi. Per tre volte ho dovuto interrompere le riprese, cercare i soldi e ricominciare; cioè, mi si vede guardare fuoricampo a sinistra, e quando si stacca su quello che sto guardando siamo in un altro continente, un anno dopo. E dunque nel film ci sono molti piú stacchi di quelli che avrei voluto; non era stato scritto cosí, ho dovuto farne tanti perché non avevo mai il cast completo sul set.” (p.149)

“Il progetto di Othello, cominciato in concomitanza con il Festival del cinema di Venezia del 1948, si conclude il 10 maggio 1952 con la prima mondiale del film al Festival del cinema di Cannes, dove vince la Palma d’oro. Nell’intervista con Peter Bogdanovich, Welles la racconta cosí:

Un film ha bisogno di avere un certificato di nazionalità per partecipare a un festival. Gli italiani, i francesi e gli americani che avrebbero potuto presentare Otheo, non volevano: avevano già i loro film. E cosí, visto che era stato girato in Marocco, è stato presentato come un film marocchino. Ero in albergo, e il direttore del festival, Robert Favre Le Bret, mi chiama al telefono e mi fa: «Qual è l’inno nazionale del Marocco?» È cosí che ho saputo di aver vinto il primo premio: perché suonano sempre l’inno nazionale del vincitore. E, naturalmente, non esiste un inno nazionale del Marocco, o perlomeno allora non esisteva. Non c’era nessuna delegazione del Marocco, niente.” (p.151)

Altra vicenda curiosa.

Sam Wanamarker, attore e regista figlio di immigrati ebrei di origine ucraina, lascia gli Stati Uniti nel 1947 perché iscritto al Partito comunista e per questo inserito nella lista nera del senatore McCarthy. Da giovane aveva visto la ricostruzione immaginata del teatro Globe di Shakespera presentata in più occasioni durante le esposizioni universali degli anni trenta. A Londra continua la sua carriera di attore sia a teatro che nel cinema, con ruoli anche importanti. Viene però ricordato per aver contribuito alla ricostruzione del teatro Globe (inaugurato nel 1997 quattro anni dopo la sua morte).

Andrew Dickson: “Non solo una delle principali attrazioni storiche di Londra era stata creata da uno yankee, ma aveva avuto origine nella splendida inautenticità dei Globe alle Esposizioni universali americane di piú di mezzo secolo prima, e nello Shakespeare in formato ridotto allestito davanti a un pubblico di vacanzieri e visitatori per pochi dollari. L’idea stessa di uno Shakespeare «autentico», non nel senso di una ricostruzione sobriamente intellettuale ma di un’attività popolare intesa a far soldi, era eminentemente americana.” (p.152)

Kenneth Charles Branagh

“Fin dagli inizi della civiltà sono esistiti i cantori di storie. Persone che in ogni gruppo, per quanto primitivo, o comunità, raccontavano storie per intrattenere, educare, divertire. Tra tutti i cantori di storie mai vissuti ce n’è uno che ha fornito opere teatrali, poesie e canzoni che hanno formato la base di film, piú di ogni altro scrittore. Il suo nome è William Shakespeare e centinaia di attori, scrittori, e registi che lavorano nel cinema hanno tratto ispirazione dalla sua magnifica eredità.” (p.252)

“Cinquanta minuti delle due ore di Shakespeare in Love sono dedicati al teatro di Shakespeare, e in un senso molto concreto: vediamo gli edifici, i luoghi teatrali e gli arredi, sentiamo la musica di scena, assistiamo al ca- sting, alla recitazione e alle prove. Il film mostra l’aspetto commerciale e di frenetica competizione del teatro elisabettiano: impresari innamorati dello spettacolo che sono anche uomini d’affari senza scrupoli, la censura che chiude i teatri se recano offesa alla morale pubblica, i ritmi di lavoro frene- tici, il costante assillo dei soldi, la rivalità ma anche la collaborazione tra scrittori, l’ansia di andare in scena in tempi stretti, il senso orgoglioso di appartenere a uno show business che stava scrivendo la storia della nazione inglese, oltre che del teatro. Non c’era niente di paragonabile nel teatro europeo dell’epoca, e non ci sarà piú nulla di cosí genuinamente nazional-po- polare fino all’avvento del cinema, tre secoli dopo. Shakespeare in Love getta la maschera e fa un discreto coming out, suggerendo nel finale che il teatro di Shakespeare sia l’antenato mitico di Hollywood.” (p.272)

Infine…

“Adesso Viola avanza per un’immensa spiaggia sabbiosa, si muove senza sforzo, incede piú che camminare, il naufragio non sembra averla toccata, continua ad avanzare verso la foresta che chiude la spiaggia, senza paura, senza esitazioni. La voce di Will l’accompagna: «Sarà una storia d’amore.. perché lei sarà la mia eroina per sempre…» L’inquadratura è di nuovo su Shakespeare. È un primo piano. Alza gli occhi dal tavolo: «… e il suo nome sarà… Viola». Abbassa di nuovo gli occhi sul foglio e scrive: «Viola». Poi, ac- canto, la prima battuta del personaggio: «What country…» «Che paese è questo?», sono le prime parole di Viola nella Dodicesima notte, naufraga sulla costa d’Illiria.

Che la nuova terra in cui Viola di Shakespeare in Love è arrivata sia l’America è piú di una supposizione, visto che la nave era diretta in Virginia. La versione originaria di questa scena finale, girata, montata e poi cancellata, ma ancora visibile negli extra del dvd, mostrava una Viola senza fiato sulla spiaggia, i vestiti laceri e zuppi, che incontrava due uomini, un nativo americano e un africano, e rivolgeva loro la fatidica domanda: «Che paese, amici, è questo?» La risposta era: «America». Al che, una Viola piuttosto spaesata replicava: «America? Bene!» Sullo sfondo, dietro gli alberi della foresta, si sarebbero dovuti intravedere addirittura i grattacieli di Manhattan. Grazie a un ripensamento dell’ultimo minuto, la scena finale del film è rimasta nell’indeterminatezza, aprendosi alla suggestione di un mito di fondazione.

Viola incede solenne sull’immensa spiaggia, i lunghi capelli d’oro al ven- to. Lenta e maestosa, si allontana verso l’orizzonte. Sullo sfondo le foreste vergini, e dietro di quelle un intero continente da attraversare fino a raggiungere l’altra costa, là dove tramonta il sole. Viola è sbarcata in America, porta con sé il seme di Shakespeare… La storia è finita, ma avvertiamo la promessa di nuove storie in un nuovo mondo.” (p.279)