Spinoza e Leibniz: due diverse storie su attributi, sostanze ed essenze, di Francesco Piro, 2014 (Accademia.edu)
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Leibniz interpreta il tema spinoziano degli attributi di Dio:
Per Cartesio, le perfezioni divine sono proprietà della sostanza divina, come l’onniscienza, l’onnipotenza e così via. Noi le intendiamo, pur senza comprenderle a fondo, e senza comprendere la natura divina. Leibniz, invece, come Spinoza, cerca di identificare gli “attributi” di Dio, cioè i componenti di quella stessa essenza che Descartes considera inconoscibile. Ma, nello svolgere questo compito, egli conferisce agli attributi divini quella semplicità e quella illimitata capacità di affermazione che Descartes aveva attribuito alle perfezioni. Da questa fusione deriva la terza denominazione, la più originale e pervasiva, che Leibniz dia degli attributi/perfezioni: “Forme semplici” (Formae simplices).
Nel 1676, Leibniz è chiaramente convinto che la semplicità di un concetto possa essere scoperta su basi fenomenologiche, vale a dire distinguendo tra ciò che si presenta uno actu alla mente e ciò che invece possiamo identificare come effetto di una elaborazione cognitiva interna.
per Spinoza, la sostanza e l’attributo non sono due enti diversi, ma essi si differenziano tra loro soltanto come si differenziano un “corpo piano” e un “corpo bianco”, vale a dire come una data entità considerata così come è in sé e come viene percepita. Dunque, la primarietà concettuale dell’attributo è direttamente espressiva dell’autosufficienza di una totalità concreta, di una data sfera o genere di essere a se stante. L’ente infinito (Dio) “consta” di tali sfere di essere, ma ciò non sopprime la loro autonomia. Vi è in questa dottrina un evidente debito verso Cartesio, il primo a concepire l’attributo come “proprietà principale” di una data sostanza. Spinoza contesta la tesi cartesiana che, per ogni attributo, debba darsi una sola sostanza (E I, sch. prop. 10), ma è fedele a Descartes allorché afferma che uno stesso attributo non può appartenere a più di una sostanza (E I, prop. 5). L’attributo spinoziano non è un predicato, non è un modo per classificare gli enti. L’estensione non è una proprietà condivisa dalle cose estese, ma ciò di cui esse sono fatte e che le spiega.
Leibniz sostiene fin dall’aprile del 1676 quel che Tschirnhaus scriverà a Spinoza nel giugno dello stesso anno e cioè che il concetto di estensione non può spiegare tutta la varietà dei fenomeni fisici. Ma nei suoi scritti coevi compare anche un’ altra tesi e cioè che l’estensione, in quanto tale, non è un attributo divino, bensì una proprietà derivata (specialior forma), e dunque essa non è direttamente inerente a Dio né può spiegare l’intera costituzione elementare della natura. Non si tratta ancora della concezione leibniziana dell’estensione come astrazione, ma siamo ormai lontani da Descartes e Spinoza.
Credo però che, nella divaricazione progressiva tra le due concezioni dell’attributo divino, entri in gioco una questione più fondamentale, quella della conoscibilità di Dio. Laddove in Descartes, si alternano prese di posizione a favore della presenza in noi di una “idea chiara e distinta” di Dio e altre prese di posizione che sottolineano l’eterogeneità della natura divina rispetto alla nostra, sia Spinoza che Leibniz sono interessati a garantire la comprensibilità di Dio. Ma in quale modo? Per contro, Leibniz inscrive il tema degli attributi divini all’interno di una ricerca metafisica dei veri sommi generi, ovvero che sostiene che la riduzione nominalistica e cartesiana degli universali a pure finzioni sia valida per le nozioni apparentemente semplici, ma non possa essere valida in generale, perché altrimenti non si darebbe un fondamento oggettivo delle verità di ragione. La dottrina degli attributi di Dio viene perciò trattata da Leibniz all’interno di un progetto di rifondazione della metafisica – intesa nel senso tradizionale di dottrina dell’ente in genere o, come Leibniz dice , del “pensabile” (cogitabile) – per mezzo dell’analisi dei concetti e degli enunciati. La dottrina delle forme semplici costituisce una sorta di mito fondatore di questo grande progetto leibniziano. Se gli attributi di Dio sono predicati, è ovvio che Dio vada concepito soprattutto come il loro soggetto ( subjectum). Ma che cosa è esattamente un “soggetto”? Leibniz ne propone una definizione fin dal 1676: “È una cosa stupefacente che il soggetto sia cosa diversa dalle forme o attributi. Ma ciò è anche necessario, perché delle forme per la loro stessa semplicità non si può affermare nulla, infatti non si darebbe alcuna proposizione vera se le forme non si unissero al soggetto. Il pensiero non è la durata, ma il pensante è durevole. E questa è la differenza della sostanza dalle forme. In questo passo, dunque, la parola latina substantia è usata come sinonimo di subjectum. Il che è un evidente ritorno a una prospettiva aristotelica, secondo la quale la sostanza è innanzitutto quel tipo di ente che fa da sostrato a una molteplicità di predicati. ….. Tuttavia, quel che mi sembra più interessante in questa vicenda non è tanto la constatazione che Leibniz non ha costruito la sua filosofia tutta d’un colpo o che ha adottato provvisoriamente dottrine che avrebbe poi scartato. Quel che mi sembra significativo è soprattutto la divergenza di mentalità e di obiettivi metafisici sussistente tra Spinoza e Leibniz anche nel periodo di maggiore apertura del secondo nei confronti del primo. A ragione, Laerke sottolinea in conclusione del suo libro questa differenza di “
intuizioni”. Aggiungo che la diversità di intuizioni si verifica soprattutto in ambito mereologico. Ognuno dei due filosofi tende a vedere come “tutto” qualcosa che all’altro non appare tale: l’estensione, per esempio (che Leibniz rapidamente degrada a “forma più specifica” e infine a mera astrazione) o – per contro – l’individuo, che per Spinoza non costituisce un microcosmo che riassume l’universo. Questa diversità di intuizioni mereologiche rinvia, a mio avviso, alle concezioni della conoscenza dei due autori. In Spinoza, si avverte la dualità tra la prospettiva della conoscenza di secondo genere (la conoscenza deduttiva) e quella della conoscenza di terzo genere (la scienza intuitiva). L’estensione, concepita attraverso la conoscenza di secondo genere, non è se non un insieme di proprietà comuni e di leggi comuni della materia, ma Spinoza ci invita nondimeno a concepirla come assolutamente unitaria e indivisibile. Spinoza nega la diretta deducibilità logica di Dio a partire dall’essenza di un dato ente singolare, ma afferma anche che noi siamo in grado di concepire noi stessi sub ratione aeternitatis grazie alla scienza intuitiva. Questa compresenza di prospettive aiuta anche a capire perché Spinoza possa aver postulato relazioni espressive tra il tutto e le parti – tra l’essenza e gli attributi in Dio o tra l’essenza e le condizioni prossime nelle entità diverse da Dio – anche in casi in cui Leibniz non le considera possibili. Per contro, in Leibniz si coglie una divaricazione sempre presente tra l’intelletto intuitivo divino e l’intelletto discorsivo umano. Quest’ultimo può sì essere intuitivo rispetto a concetti elementari, ma ha bisogno del filo meccanico del ragionamento ben organizzato per arrivare alla sintesi, che spesso può essere colta soltanto attraverso mediazioni simboliche, con una sorta di “pensiero cieco”. Di qui deriva la sua incessante polemica contro l’intuizionismo cartesiano e contro lo stesso Spinoza. Per contro, la grande e autonoma scoperta leibniziana è che uno stesso contenuto può essere espresso per mezzo di molteplici, forse infinite, mediazioni simboliche.