Ridere della tragedia

“Io non posso ascoltare troppo Wagner, lo sai, già sento l’impulso a invadere la Polonia.” (Woody Allen, in Misterioso assassinio a Manhattan.

Per far ridere della tragedia, e per riderne, cè bisogno che la conoscenza sia approfondita. Complessa, sofisticata. Non si puð essere ignoranti e divertireper lo meno consapevolmente. Si può essere ridicoli, ma questo è ancora un altro campo del comico; e sia chiaro: dal ragionamento che stiamo facendo, è esclusa quella forma del riso alle spalle di qualcuno.

Ancora: ridere della tragedia, ridere dell’invasione della Polonia, ridere del coronavirus, è un modo per respingere i pensieri fanatici. I toni gravi e la retorica sono appropriati durante la tragedia, ma senza il loro rovescio portano alle convinzioni estreme. Quando si dice drammatizzare» si vuole dire (anche) mettere in gioco le proprie convinzioni, togliere loro saldezza, e quindi doverle riconsiderare. I riso fa cambiare punto di vista, smussa gli estremi, rompe la tensione delle persone che urlano con il dito alzato. Chi ride della tragedia sta lottando contro la retorica di cui qualche volta c’è bisogno; e contro il fanatismo di cui non c’è mai bisogno, nonostante qualcuno, sicuro di stare davvero stavolta dalla parte giusta, è convinto ce ne sia bisogno. Ma la risposta è semplice e risolutiva: tutti i fanatici credono di stare dalla parte giusta. Chi sa ridere sa dubitare, sa parlare, sa mettersi dalla parte del torto. Chi ride è democratico. Chi ride della tragedia, inoltre, lo fa essendone coinvolto. È il grande discrimine del comico: ridere degli altri, standone fuori; o ridere di sé stessi compresi. Tutta la letteratura comica, e i grandi comici (da Jerome a Buster Keaton, da Seinfeld a Massimo Troisi) ridono di sé stessi e del mondo a cui appartengono. Il comico che ha qualche valore non si rivolge agli altri, ma a sé stesso. 

Francesco Piccolo (La lettura, domenica 17 gennaio 2021.)