Cresce il ruolo dei galleristi ipeglobalizzati, di Vincenzo Trione (dicembre 2019)
In un artilcolo del 2015 Simon Schama ha descritto l’artworld in questo modo: «Ronzio incessante, tendenze, soldi, inaugurazioni sensazionali, galleristi-modaioli che si studiano a vicenda; robaccia di più‘ alto livello, rappresa di teorie, che fa di tutto per collegare un’esperienza critica a ciò che è insignificante e irrilevante, pornografia all’asta, arte intesa come qualcosa in cui investire, più che da capire, carosello di miliardari ansiosi e smaniosi di spendere».
Recinto all’interno del quale convivono artisti, critici, galleristi, collezionisti, media, museo e pubblico, il sistema dell’arte, negli anni, ha radicalmente rimodulato la propria identità. Alcuni attori sono diventati più marginali, altri hanno assunto una maggiore centralità.
Questi nuovi assetti sono testimoniati dalla power list di ArtReview, che ogni anno pubblica l’elenco dei cento influencer del mondo dell’arte contemporanea: artisti, galleristi, curatori, collezionisti, mecenati, critici, direttori di musei e di istituzioni culturali, ma anche fenomeni artistici e politici. Come ogni «lista», anche questa risulta parziale. Eppure, è molto utile per registrare le trasformazioni della geopolitica dell’arte del nostro tempo e per comprenderne equilibri e dinamiche interne.
Ecco l’artpower, allora. Alcuni dati vanno sottolineati. il crescente nh”evo delle artis’te (Goldin e Steyerl), degli artisti lmpegnati (Werzman, Gates, Attia, Ai Wei-wei, Jafa, Joyner, Eliasson, Kentridge, Paglen, Kordansky) e dei collettivi (gli statunitensi Decolonize This Place e gli indonesiani Ruangrupa, che cureranno Documenta 15 di Kassel). Da segnalare la conferma del movimento #metoo. Non molti i curatori (Obrist, Franke, Kouoh, Preciado, Sunjung Kim, Meta Bauer, Rugoff, de la Barra) e i direttori di centri culturali (Eccles). Pochi gli artisti già consacrati (Hammons, Parreno e Gillick). Pochi gli italiani: Prada, Gioni, Sandretto, Christov—Bakargiev, la giovane Lucia Pietroiusti (curatrice del Padiglione Lituania alla Biennale 2019, vincitore, del Leone d’Oro), la Galleria Continua, Massimo De Carlo.
La hit parade fotografa il’ cambiamento cui stiamo assistendo. Per molti anni, l’artsystem è apparso come una galassia al cui centro vi erano quelle che qualcuno ha chiamato le sette sorelle dell’arte: il Moma-PS, Guggenheim e il Met di NewYork, il Pompidou di Parigi,” laTate di Londra, il Ludwig diVienna, Colonia e Budapest, e le Fondazioni d’arte di Soros. Intorno alle sette sorelle, tanti satelliti: curatori, artisti pubblico. La cartografia, ora, appare più ricca e mobile. Certo, i musei continuano ad avere un ruolo rilevante (come dice la presenza dei direttori dei Moma e dei New Museum di NewYork, dello Studio useum di Har’lem, del Pompidou, del— l’Institute of Contemporary Art di Londra, della National Gallery di Singapore, del Reina Sofia di Madrid). Ma, da qual che tempo, come conferma «ArtReview», il loro dominio è insidiato da alcune gallerie. Autentiche multinazionali dell’arte: Wirth, Zwirner, Perrotin, Ropac, Buchholz, Rech, Zhang Wei & Hu Fang, Continua, De Carlo. Si tratta di galleristi che si muovono su scala globale: hanno sedi in molte città, spesso in vari continenti. Hanno poco in comune con la tradlzione di figure come Kahnweiler, Castelli e Amelio. E non si ispirano neanche a mecenati come Paul Getty e Peggy Guggenheim. Pur diversi tra di loro, si comportano come plutocrati, come showmen, come domatori, come giocatori di poker. Hanno fiuto, cinismo, disinvoltura. Per loro, contano poco le visite negli atelier e i giudizi sulla qualità dei quadri, delle sculture, delle installazioni. Non si dedicano all’incerta attività dello scouting. Siamo dinanzi ai principali burattinai del mer- cato dell’arte, concepito come una complessa miscela di consumismo, spettacolarità, vanità, stupidità, cupidigia, competenza, insicurezza, feticismo e ignoranza.
Il mercato, ha scritto il critico del «New York Magazine» Jerry Saltz, è come «una droga la cui assuefazione rasenta la tossicodipendenza, una tempesta programmata fatta di promozioni e speculazioni, un misto tra una tratta di schiavi, un’agenzia di borsa, una discoteca, un teatro e un bordello».
La strategia dei galleristi tycoon iperglobal è chiara: rendere sempre meno infuenti i curatori, costretti a ridurre il proprio mestiere a pratica documentativa e organizzativa. E ancora: depotenziare il ruolo di tante importanti gallerie nazionali e locali. L’ambizione segreta: favorirne un’omologazione del gusto e delle opzioni artistiche. Garantendo il trionfo di un presente senza frontiere e senza memoria. Eppure, al di là di queste intenzioni ciniche e pericolose, i galleristi-broker hanno anche finalità nobili”. Sembrano condividere un sogno. Pensano le diverse sedi delle loro gallerie come le stanze di un museo «diverso». Che ospita personali di artistar, ma anche mostre su artisti storicizzati (come fa Gagosian’). Pubblica cataloghi critici. Si dota di centri di ricerca. Collabora con istituzioni (come Gagosian con la Fundacion Picasso e Hauser & Wirth con la Fondazione Fontana). Infine, promuove attività editoriali (ancora come la Hauser & Wirth). Dunque, una pinacoteca dinamica, liquida, estesa in Europa, America, Asia…