Il liberismo in città

Dalle due interviste emergono osservazioni importanti, ma non sempre gli esempi sono convincenti. È uno sguardo critico che però non offre soluzioni concrete. Tuttavia certe considerazioni vanno fatte e soprattutto rivolte a questa sinistra senza idee e identità. Non resta che leggere il libro. 

Vivere e costruire le città contro le pratiche liberiste – intervista a Lucia Tozzi (menti in fuga)

Il problema è che questi format commerciali contaminano e plasmano anche le istituzioni museali e culturali. Si diffondono spazi ibridi, spazi in teoria multifunzionali cioè dove è possibile fare teatro, cinema, cultura, qualche concerto, dj set ma poi troviamo anche un bar. In realtà questa multifunzionalità è più orientata verso il consumo, che dovrebbe garantire l’ormai obbligatoria autosostenibilità dell’istituzione e, passo dopo passo, il pubblico diventa privato.

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La partecipazione più efficace a mio parere è quella fondata sul conflitto politico, più che sul consenso: dove gli abitanti lottano esplicitamente per i desideri condivisi e contro le imposizioni moleste. Trovo che in ogni caso sia prioritario un grande ritorno al pubblico, cioè prima di arrivare alla cosiddetta “partecipazione dal basso” bisogna ricostituire il welfare pubblico, i diritti per legge. Perché fino a oggi quello che è successo è che coloro che hanno lavorato solo dal basso per democratizzare le istituzioni hanno finito per indebolirle.

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Quando il pubblico era in espansione si costruivano tantissime case popolari – magari anche fatte male, magari anche con dei criteri che non ci piacevano – ma si è potuto lottare per estendere ancora di più il diritto alla casa. Quando tutto diventa privato, tutto questo non è più possibile.  Con chi te la prendi? Se lo Stato, il pubblico fa una cosa che non ci piace possiamo contestarlo, quando è il privato che agisce non puoi fare più niente, perché è normale che il privato agisca per il proprio interesse, è quella la sua missione.  Di questi tempi molti reazionari mostrano enorme entusiasmo per tutte le pratiche di mutualismo e il mondo no profit in generale, perché basta concedere qualche briciola per accordarsi, per cooptare le energie sociali.

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il 110% è stata una vergogna dell’umanità, perché ha allocato soldi di tutti italiani creando un debito mostruoso e legandoci a procedure europee di tagli e austerità. Si è trattato di far rifare le facciate ai ricchi.  So che ci sono analisi che dicono che anche i ceti medi e le classi meno abbienti ne hanno usufruito, ma in misura minoritaria. Inoltre, la cosa grave è quanto successo a livello ambientale: perché si sono imbottiti migliaia di edifici di plastiche, polistiroli che tra dieci anni saranno molto usurati e poi per ottenere il salto di classe sono stati buttati in discarica milioni di tonnellate di materiale ancora ottimo.

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IL marketing e la città, intervista a Lucia Tozzi (il Tascabile)

A opprimermi davvero, però, era la grande quantità di eventi legati alla cosiddetta CSR (Corporate Social Responsability) o ESG (Environmental-Social-Governance), alla promozione di un’immagine sostenibile e politicamente corretta di aziende o di alcuni settori politici – tutto ciò che rientra nella sfera del socialwashing, pinkwashing e greenwashing. Ho cominciato a chiedermi “Ma perché devo parlare di Timberland che sistema quattro vasetti in un cortile?”. Così ho iniziato a sentire l’esigenza di mostrare come tutta questa fuffa finisca per passare come cultura, anche se la maggioranza delle persone non sembra rendersene conto. Se non fossi stata costretta a questo presenzialismo costante per cinque anni non me ne sarei nemmeno resa conto.

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Chiamare le periferie “quartieri” è una pratica che si è appoggiata alle politiche delle “città da quindici minuti”, che lasciano il tempo che trovano anche all’estero e in ogni caso da noi sono state interpretate nella maniera peggiore… La questione della città da quindici minuti qui a Milano puntava sull’identità dei quartieri: marketing puro. L’idea che ogni quartiere abbia la sua identità, la sua celebrity, il suo testimonial, il suo influencer e che proprio per questo uno debba essere fiero di vivere all’Ortica è una cosa disgustosa, che sposta investimenti reali rubando soldi al welfare.

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I servizi culturali vengono trasformati in questi “murales finto partecipati”. I bandi per la loro realizzazione sono strutturati in modo osceno: ci deve essere un intermediario (di solito un’agenzia pubblicitaria o di comunicazione); dei giovani che fanno praticamente da figuranti seguendo il lavoro e comunicando di esserne entusiasti, ma che assolutamente non devono essere pagati, neanche con un rimborso spese; e poi l’artista principale, che partecipa con un compenso bassissimo. I fondi vengono sperperati per queste operazioni, nessuno ci guadagna davvero, e alla fine risulta impossibile trovare i soldi per pagare un custode di un museo civico.

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Nel libro cito Hannah Arendt perché in un certo senso il collaborazionismo di tutti quelli come noi è uno dei nodi centrali della depoliticizzazione in cui siamo immersi, e mi impensierisce che una parte del terzo settore abbia reagito in maniera chiusa, non dialogica.

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un conto è prendere soldi per tamponare un’emergenza umanitaria, un altro è prenderli per fare attività artistiche in periferia. Sono due piani di urgenza completamente diversi, per cui per quanto mi riguarda è ampiamente possibile disertare, tenersi lontano da questi soldi e da questo sistema, boicottarlo.

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Se le cave di Cabassi negli anni Sessanta non sono diventate dei palazzoni è perché c’è gente che ha lottato perché diventasse un parco pubblico e perché dopo l’Expo rimanesse tale, e ora è davvero pubblico, di tutti: non è un giardinetto autogestito. Anche se questo implica delle complessità, davvero tutti possono andarci. A differenza del parco BAM, dove se vieni riconosciuto come un ospite non gradito, un po’ troppo alternativo, vieni gentilmente invitato dalla sorveglianza ad andartene.(Bah, non credo, anzi magari)

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sul diritto ad avere affitti calmierati. È fondamentale che gli studenti protestino, nella consapevolezza, però, che non esistono solo loro e che storicamente la comunità studentesca è stata parte del problema

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Le riforme contraddittorie degli ultimi anni hanno da una parte prodotto piccole università in luoghi che non ne avevano bisogno; dall’altra, grazie all’autonomia e ai sistemi di ranking sul modello statunitense, i finanziamenti maggiori paradossalmente non arrivano alle università che ne hanno più bisogno ma a quelle che sono già realtà solidissime.

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le migrazioni di un tempo attivavano un’economia delle rimesse: la gente che emigrava mandava indietro i soldi; adesso sono le persone che restano che mandano soldi a chi va via. Milano ruba studenti anche a Bologna, Pisa, Firenze e Venezia, città storicamente universitarie. È una competizione feroce, liberista.

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Le pressioni sono tante, ed è difficile agire a livello esclusivamente locale, ma ad esempio i politici che cercano di far ricadere la responsabilità della turistificazione e di AirBnb sul governo sono gli stessi politici che hanno governato per dodici anni alimentandoli! Proporre una legge nazionale è un assist clamoroso che alcuni movimenti stanno offrendo ai responsabili del disastro attuale. Così gli assessori o i sindaci di centrosinistra possono fare bella figura comportandosi da opposizione e scaricando il barile sul governo nazionale, quando loro hanno fatto di tutto per favorire la gentrificazione, non esercitano nessuna forma di calmieramento del mercato e nemmeno controlli e tassazioni che potrebbero applicare sugli immobili vuoti e sfitti. Insomma, sarebbe un colpaccio, e infatti i politici del centrosinistra otterranno sicuramente dei vantaggi.